PROFILI ECCELLENTI
ALBERTO SORBINI:IL VALORE DEL CIBO COME PONTE TRA LE CULTURE.
Le migrazioni e le abitudini alimentari globali
Data: 5/2/2012
É stata recentemente pubblicata sul quotidiano argentino Clarìn l’ultima ricerca del Prof. Alberto Sorbini, perugino, antropologo alimentare, direttore dell’ISUC (Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea) e studioso di riconosciuta fama nel settore antropologico ed etnografico.
Alberto Sorbini, omaggiato nel 2011 del Premio Globo Tricolore, è un ricercatore di ampio respiro, esperto di storia dei fenomeni migratori e responsabile scientifico del Museo Regionale dell’Emigrazione “Pietro Conti” di Gualdo Tadino. Collaboratore dal 1983 al 1989 del quotidiano Paese Sera per le pagine culturali e presidente della Fondazione Umbria Spettacolo dal 1993 al 2001, il Prof. Sorbini insegna “Storia e antropologia dell’alimentazione” all’Università dei Sapori di Perugia e ha presieduto nel 2003 la Commissione tecnico-scientifico per la realizzazione del “Disciplinare Ristorazione Tipica Certificata Regione dell’Umbria” promossa dall’Associazione Interregionale delle Camere di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura. Fa parte del Comitato di indirizzo del Centro internazionale per gli studi e la cultura della dieta mediterranea con sede a Matera e dirige le collane editoriali “Viaggiatori stranieri attraverso l'Umbria” e “I Quaderni del Museo dell'Emigrazione”.
“Il cibo come ponte tra le culture” è il titolo dell’ultimo studio del Prof. Sorbini che mira a mettere in evidenza come i processi migratori abbiano prodotto degli effetti complessi e molteplici sull’alimentazione delle popolazioni coinvolte. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Prof. Sorbini, come hanno influito le migrazioni sulle abitudini alimentari globali?
In antropologia culturale si da a questo fenomeno il nome di “acculturazione alimentare”, un evento che è il risultato dell'incontro tra le diverse culture ed i cambiamenti che si verificano sia dal punto di vista individuale che collettivo. Particolarmente forte e significativa appare in coloro che emigrano la connessione tra il regime alimentare abituale, caratterizzato da cibi molto semplici, e il senso di appartenenza e identità culturale. Il migrante, infatti, si trova, almeno nelle prime fasi, in una condizione di sradicamento dal suo precedente contesto e, di conseguenza, in una situazione di perdita di quei specifici parametri di riferimento che ne avevano in precedenza segnato fattivamente l'orizzonte di vita. Il cibo ha in quest’ottica una funzione rassicurante, poiché serve a mantenere dal punto di vista simbolico il collegamento con il paese d'origine. Per questo il migrante porta con sé, nella sua valigia, alimenti e ingredienti della sua terra e il cibo finisce per essere l’unico baluardo di “familiarità” in un mondo nuovo ed estraneo.
Una tendenza quindi a mantenere la connessione con la tradizione alimentare della terra d’origine escludendo l’adozione di nuove abitudini e di nuovi sapori. É così?
Innanzitutto non dobbiamo dimenticare che l'emigrante fugge da una situazione di fame e/o di malnutrizione nel migliore dei casi. Nel nuovo paese si trova ad avere nel quotidiano possibilità di alimentarsi che a mala pena sognava nel suo paese d’origine. Così, ad esempio, è successo ai primi immigrati italiani che sbarcarono tra fine ottocento e primi del novecento in Argentina con la carne: nelle lettere inviate a parenti e amici rimasti in Italia sottolineavano che mangiavano carne più di una volta al giorno e che quest’ultima costava anche meno del pane. Capite come, in una dieta, come quella dei contadini italiani, in cui la carne era l’eccezione di alcuni giorni festivi nell’arco di un intero anno e il pane era l’alimento base, questo assuma un valore di eccezionalità. Essi avevano l’impressione di aver trovato o di aver raggiunto il “Paese della Cuccagna”. Ma non bisogna dimenticare che, come per altri gruppi etnici, e quindi anche per gli italiani emigrati, la cucina resta un mezzo per riscoprire o ribadire la propria identità etnica: un segno di continuità tra passato e presente, il mantenere un filo con la vecchia tradizione.
Tendenza che ha diffuso nel mondo standard alimentari tipici dell’italiano, come è accaduto con la pasta.Se vogliamo prendere ad esempio la pasta, che è diventato il simbolo dello stile alimentare italiano nel mondo, troveremo delle interessanti sorprese: in Italia non si mangiava affatto molto pasta; il consumo di pasta in Italia fino al 1930 era minimo, tranne che in alcune zone di produzione come Napoli, Genova e la Sicilia. Tuttavia il suo impiego tra gli immigrati, soprattutto quelli approdati in Nord America, aumentò in brevissimo tempo per le stesse motivazioni relative al consumo della carne in Argentina di cui abbiamo detto sopra, e cioè la facilità di reperimento della materia prima. E infatti è proprio negli Stati Uniti e poi in Argentina, che gli italiani hanno dato vita alle prime fabbriche di pasta all’estero. Ecco quindi che appare chiaramente il fatto che è proprio il fenomeno migratorio, in particolare degli italiani, che ha determinato profondi cambiamenti nella dieta globale, creando una tipologia di regime alimentare definito “italiano” ma che non corrispondeva affatto a quello dell’italiano medio, che si era allontanato dal suo paese d’origine costretto dalla povertà e dalle pessime condizioni di vita, ma era piuttosto il portato del nuovo italiano “urbano”, divenuto ormai un borghese. Dobbiamo a questa categoria di nuovi inurbati l’invenzione di un piatto come spaghetti e polpette, diffusissimo negli Stati Uniti ma che non apparteneva certo alla tradizione italiana.
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